Pubblichiamo il primo contributo dell’approfondimento condotto da Embrice 2030 e curato da Carla Scura sulla nota architetto prematuramente scomparsa Zaha Hadid. Si tratta dell’analisi condotta da Emma Tagliacollo del manufatto romano dell’architetto, il MAXXI, con un interessante confronto fra le prime impressioni all’apertura dell’edificio e la riflessione sull’intervento anche urbanistico nonché museale a distanza di sei anni. Innovazione e contestualizzazione (mentre una delle critiche più spesso rivolte a Dame Hadid era lo scollamento fra i suoi progetti e le realtà circostanti).
Il museo come metafora della città
di Emma Tagliacollo
Una riflessione sul MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, ad alcuni anni dalla sua inaugurazione, può forse avere il valore di un bilancio non solo per l’architettura ma anche per il suo contesto urbano. È questa un’architettura e allo stesso tempo un’opera d’arte; come tale è talmente straordinaria e magnetica da attirare trasversalmente turisti e cittadini non solo per visitare un museo ma soprattutto per entrare in contatto con un mondo differente che è poi un modo diverso di vivere il museo. Interessanti le parole dell’architetto che evidenziano come il museo sia parte della città e la sua funzione in continua trasformazione: «Una parte importante del nostro lavoro consiste nell’urbanizzare la città, nell’investire realmente in programmi pubblici. […] L’idea centrale dei progetti museali è quella di fornire ai curatori un’incredibile varietà in termini di possibilità espositive, molte soluzioni di posizionamento e composizione delle opere e delle installazioni» (da Architecture and the Museum, intervista a Zaha Hadid in occasione del Frieze Art Fair, Londra, 21 ottobre 2015).
Il MAXXI sin dalla sua costruzione si attestava come un elemento innovativo, non solo per la sua concezione interna, dove la composizione è basata su spazi fluidi che richiedono il continuo movimento, ma anche per il suo essere opera architettonica e cantiere innovativo da visitare nelle sue differenti fasi. Una creatura da scoprire, svelare e capire mano a mano che vedeva la luce. Ogni fase della costruzione si è presentata come una sfida: le grandi pareti continue hanno richiesto la realizzazione di casseforme su misura e la messa in opera di un cemento facciavista autocompattante, risultato degli studi condotti sotto la supervisione del prof. Mario Collepardi; l’effetto finale delle pareti lisce è stato ottenuto grazie a una particolare resina colata nelle casseforme prima della gettata di cemento. Il cantiere nelle sue fasi – dal 2003 al 2009 – è stato un libro aperto di tecnologia al servizio dell’arte a disposizione di tutta la cittadinanza grazie alle visite guidate.
La sua anima contemporanea non deve tuttavia trarre in inganno il visitatore o il fruitore degli spazi: l’edificio mantiene infatti una stretta relazione con il quartiere e, proprio grazie ad esso, continua a fornire nuovo impulso a tutta l’area in un bilanciamento continuo tra residenze e servizi. È questo uno dei motivi che ha fatto sì che il progetto risultasse vincitore dalla competizione internazionale promosso dal bando del Ministero per i Beni Culturali nel 1998.
La felice presenza dell’Auditorium e del Villaggio Olimpico – ancora oggi esempi di interventi architettonici e urbani notevoli – permettono di aprire una riflessione sulle piazze che, proprio tra due quartieri (Villaggio Olimpico e Flaminio), presentano livelli di interazioni e anche scopi differenti. Se la prossima piazza Grecia del Villaggio Olimpico è indubbiamente la piazza di quartiere per antonomasia con il suo spirito anche di “strapaese”, quella dell’Auditorium di Renzo Piano ha la cifra della piazza catartica e proprio come un teatro la viviamo e la percorriamo incontrando materiali e strutture familiari alla costruzione del paesaggio di Roma. La piazza del MAXXI è forse da leggersi come una concezione sintetica di spazio democratico: non solo luogo di incontro, teatro, spazio per performance e per esibizioni di architettura e ancora, non solo spazio creativo ma collegamento tra più parti della città.
L’edificio di Zaha Hadid appare oggi come non mai una sfida al cambiamento indirizzato alle radici della città. L’architetto ci ha suggerito un linguaggio contemporaneo da integrare nella forma della città e lo sguardo non può che andare verso altri maestri che hanno fatto a Roma scelte differenti. Renzo Piano con la tradizione dei materiali nel suo Parco della Musica, Richard Meier con l’Ara Pacis, un’architettura luminosa ma tuttavia replica di altri modelli già realizzati con forme e materiali reiterati in diverse città europee. La proposta di Hadid è quella di una ricerca che oggi può suonare come un’indagine continua tra spazi e relazioni tra interno ed esterno, ci vengono offerti punti di vista differenti sulle opere e sull’architettura e forse anche sulla vita. Resta il fatto che la forza del MAXXI rimane inalterata proprio per il suo essere eccezione nel panorama architettonico romano.
Riportiamo di seguito la recensione scritta da Emma Tagliacollo nel 2010 (pubblicata su «Fogli e Parole d’Arte» all’epoca dell’apertura del Museo delle Arti del XXI Secolo), che conserva intatta la sensazione di sorpresa e scoperta di uno spazio totalmente nuovo in una città decisamente avara di tale elemento. Il progetto stesso dell’architetto aveva avuto una vita travagliata (e annosa, cosa però del tutto in linea con i tempi urbanistici di Roma non solo nel presente ma, va detto, anche nei secoli scorsi) dopo aver vinto il concorso indetto nel 1998, l’avvio effettivo dei lavori, l’apertura dello spazio e l’attivazione della funzione espositiva. Nel frattempo Zaha Hadid ha avuto una certa fortuna in Italia avendo realizzato ben 7 opere architettoniche, fra cui la Stazione Marittima di Salerno, il Messner Mountain Museum Corones di Plan de Corones sulle Dolomiti e un complesso residenziale all’interno di Citylife di Milano, e progettato oggetti di design e di disegno industriale per ditte italiane.
Apre il MAXXI di Roma
di Emma Tagliacollo
Il nuovo edificio del MAXXI_Museo nazionale delle arti del XXI secolo, dell’architetto Zaha Hadid, costruito nel quartiere Flaminio di Roma – parte di un invisibile bilanciamento con il Parco della Musica di Renzo Piano -, è pronto per essere inaugurato e ospitare mostre ed eventi. Attualmente è vuoto, libero di essere percorso e abitato dai visitatori, che si possono così misurare con i suoi spazi candidi.
È questa di Zaha Hadid un’architettura a misura d’uomo, accogliente nel suo farsi esplorare e con una grande forza narrativa. Uno dei temi principali è l’esperienza stessa dell’architettura, che ci riporta a essere protagonisti, soggetti principali del costruito.
Il progetto è passato attraverso molte fasi: dal concorso, al cantiere, opera d’arte e tecnologica nel suo farsi, alla realizzazione e, tra poco tempo, al suo diventare museo: opera utile per la vita e l’educazione della città. L’opera si pone come uno dei nuovi centri culturali di Roma, uno dei poli della vita attiva della capitale, con in più la forza di essere essa stessa una straordinaria opera d’arte.
Il quartiere Flaminio è stato oggetto negli ultimi anni di trasformazioni importanti, che lo hanno portato a una qualificazione urbana e architettonica; è diventato uno dei centri di interesse della Roma contemporanea, tanto da decentrare verso il nord della città, grazie alla varietà delle offerte e delle utenze, parte delle qualità del centro della capitale.
In questo contesto è possibile visitare l’edificio vuoto del Museo, nudo nella sua eleganza, che si presenta in modo sorprendente, una vera scoperta ed esperienza progettuale. Parola chiave del progetto è certamente l’esperienza, cioè il fatto che entrando all’interno del museo si percepisce di essere noi stessi parte dell’opera, di partecipare al disegno dell’architetto e di essere dunque noi, in prima persona, l’incipit di una delle possibili traiettorie di visita (e non semplicemente parte di un flusso di fruitori). I muri bianchi diventano avvolgenti superfici che ci guidano verso le mete che raggiungeremo all’interno di un diverso concetto di spazio, come quello tridimensionale di Lucio Fontana con i suoi Concetti spaziali.
L’ingresso è posizionato lateralmente, invece che lungo l’asse di via Guido Reni, così che per accedervi è necessario percorrere parte del giardino di sassi bianchi e cemento. I sassi bianchi sono elemento progettuale del giardino, suonano con i nostri passi e accolgono l’avvicendarsi delle stagioni rilucendo con il sole e “sporcandosi” con le foglie cadute dagli alberi. Nel giardino urbano i nastri bianchi dei sassi e le lunghe linee di cemento segnano il percorso di attraversamento da una parte all’altra del quartiere, da via Guido Reni a viale Pinturicchio, assi viari che puntano verso il Tevere, raccordandosi con il tracciato di via Flaminia.
L’edificio, grazie ai volumi che sporgono, in parte sottolineati dal ritmo di sottili colonne in acciaio, diventa passerella urbana, parzialmente negata dalla presenza di cancelli. Il portico, declinato per brani, con colonne lucide, ci introduce all’interno del museo, creando un filtro/invito tra noi e l’edificio, tra l’esterno e l’interno. Grazie alla giustapposizione dei volumi, monumentali come la scala di progetto che la città richiede, siamo condotti verso l’ingresso, che ci accoglie con una sala a tutta altezza. L’ingresso è sezione dell’opera e punto di contatto tra i visitatori grazie alla possibilità delle molte prospettive.
La luce e al contempo l’opacità sono gli elementi compositivi della rampa di ingresso, che si presenta come una luminosa passeggiata con piani sfalsati che ci restituiscono visioni differenziate. La rampa è così il nastro conduttore che diventa affaccio, corridoio, percorso che si snoda, intreccio di tragitti, elemento vivo che cambia forma lungo tutta la sezione dell’edificio. Infine troviamo gli affacci prospicienti la città, tagliati quasi pericolosamente sul vuoto. L’ultimo si raggiunge con una leggera inclinazione del pavimento. L’affaccio è un continuo specchiarsi tra il quartiere e l’opera costruita, in tal modo i volumi sono anche finestre che inquadrano dei “fermo immagine” di microstorie della città, da cui il Museo prende luce e vitalità.
(Le fotografie che illustrano i testi sono dell’autrice).