“Biografia disegnata di Giorgio de Chirico” di Cecilia Capuana

Una successione di tavole e lavori riguardanti il maestro del Novecento in mostra a Embrice Galleria di ricerca, a cura della studiosa Antonella Greco e con un’introduzione di Claudio Strinati. Alcune delle opere esposte sono pagine selezionate fra le più significative dalla graphic novel “Biografia disegnata di Giorgio de Chirico” composta dall’artista Cecilia Capuana, in via di pubblicazione.


Si autodefiniva Pictor Optimus e lo era veramente. Uno dei più grandi pittori del Novecento italiano. Amato da Breton come precursore del surrealismo, de Chirico aveva ricambiato i Surrealisti con un odio pervicace e duraturo e, nello stesso tempo, essendo un grande scrittore aveva trasformato in epica buona parte della sua esistenza.

Cecilia Capuana, pittrice e graphic artist ( su «Metal hurlant», su «Linus» e su «Alter») indaga e restituisce nei disegni la vita misteriosa di de Chirico contrappuntandone la biografia con scritti del pittore e dei critici e dei filosofi che gli furono più vicini. A cominciare dal rapporto problematico e affascinante con Savinio, il secondo dei Dioscuri.

di Antonella Greco

Presentazione

di Claudio Strinati

Il lavoro di Cecilia Capuana su Giorgio de Chirico è una graphic novel molto particolare che esce alquanto dal genere codificato combinando insieme elementi diversi con un estro, una fantasia e nel contempo un assoluto rigore filologico abbinati ad una delicatezza d’ animo ed una finezza di analisi invero incomparabili.
Nel titolo c’è un termine preoccupante: De Chirico l’antipatico.
Ma tutta la narrazione ruota effettivamente intorno a questo aspetto singolare e inafferrabile.

De Chirico viene fissato dalla nostra autrice in una serie di flash, di vere e proprie folgorazioni narrative, che toccano con leggerezza e acume i punti cruciali dell’esistenza del grande Maestro, ma sembrerebbero non esaurire sicuramente il racconto capillare della sua vita. Eppure de Chirico c’è tutto in questa narrazione della Capuana.

C’è veramente la sua quintessenza, perché c’è tutto quello che effettivamente il pictor optimus ha voluto dire ma, paradossalmente, in buona parte non è mai riuscito a dire.
Sembrerebbe un curioso nonsense, ma la storia raccontata da Cecilia è proprio l’apoteosi del paradosso.

E’ lecito pensare che a de Chirico sarebbe molto piaciuta, anche se di certo lo avrebbe negato se glielo avessimo potuto chiedere. Eppure c’è in questo racconto quella che forse è la verità di fondo sottesa al rovello metafisico e ad una vita di trionfi e cadute. De Chirico, nella storia di Cecilia non sa mai sul serio chi sente di essere, e così attraversa l’intera esistenza.

Bellissima in tal senso è la breve scena dell’ultimo incontro dei due fratelli, De Chirico e Savinio.

De Chirico sa o meglio percepisce che è quella l’ultima volta che vedrà il fratello. Sono in un teatro. Savinio siede in fondo, solo e muto. De Chirico pensa come non sia mai riuscito a comunicare veramente con lui, a dirgli le cose che desiderava dire, a parlare con lui del loro rapporto, della madre, dei sogni e delle aspirazioni condivise. Ma sa che non potrà farlo perché non ha mai voluto e perché non ha mai potuto. Il pensiero della morte imminente sembra turbarlo ma non è così.

Non è la morte, intuisce, che impedisce di fare le cose. È la vita.

Questo è il punto e la chiave di lettura di tutta la narrazione, dove rifulge lo stile sobrio e penetrante di Cecilia, morigerato, in apparenza impassibile e quieto, ma in verità sensibilissimo e fremente, conscio dell’impossibilità di non poter modificare nulla rispetto al destino incombente su di noi, che avvertiamo chiaramente e crediamo di non capire.

Cecilia Capuana ha individuato, così, quella serie di apici in cui trapela evidente, nella vita di de Chirico, la dimensione del trauma insuperabile che nessuna ispezione psicologica potrebbe o avrebbe mai potuto sanare o anche soltanto indagare seriamente. De Chirico lo spiega raccontando l’origine della pittura metafisica, la sua potente concezione innovativa che gli verrà ben presto sottratta (da Carrà, nel suo racconto) o orrendamente deformata e umiliata (da Breton, nel suo racconto).

Cecilia ce lo fa vedere in un modo invero bellissimo e commovente che non dà né ragione né torto al pictor optimus ma ce lo restituisce in tutta la sua fragile e contraddittoria umanità. La pittura metafisica, racconta de Chirico (e Cecilia lo rende ben perspicuo nel suo racconto visivo) nasce quando l’artista avverte netta la sensazione del vedere le cose conosciute e da sempre frequentate, come fosse invece per la prima volta.

La metafisica è un risveglio, una guarigione, un’alba della coscienza cui però non segue il resto della giornata.

Finisce quando è appena cominciata.

Dunque è l’arte del trauma infantile, insuperato, insuperabile e forse immotivato.

L’ essere contemplante, Giorgio de Chirico, contempla fin troppo sé stesso e nota come la più vera rappresentazione del Sé sia l’uomo di pietra che non può vivere in quanto finto, artificiale, anzi inesistente, non vivente nella piazza solitaria e vuota. E allora Cecilia ricostruisce i momenti in cui la vita di de Chirico impatta soprattutto sulla figura femminile. La madre, la prima moglie Raissa Gurievich e la seconda Isabella Far Pakszwer, entrambe russe. E poi, da lì, la catena delle frustrazioni per cui proprio il grande Maestro che sente di essere il creatore per eccellenza, padre di tutti, dominatore, viene respinto, mortificato, cacciato. Ungaretti a Parigi cerca di salvare una partita importantissima di quadri di de Chirico finiti in mano ad una portinaia. Breton proclama con sovrano disprezzo la tendenza di de Chirico ad essere il falsario di sé stesso, ma accusandolo di essere greve, pesante, inutile nel goffo tentativo di rifare le sue stesse cose ma senza ispirazione e senza capacità tecnica effettiva.

Così la storia con Antonia Bolognesi, maturata nella fatale fase ferrarese, fallisce, perché de Chirico appare ai genitori della donna come uno spiantato, un inetto. E de Chirico finirà dopo molto tempo ad implorare il Signore Iddio vergando una apposita preghiera onde poter sempre battere i suoi rivali con l’eccellenza del suo lavoro e sfuggire allo scherno altrui che lo perseguita. Ma Roberto Longhi, il principe dei critici, lo stronca, lo ridicolizza, lo umilia ancora una volta.

De Chirico è orgoglioso, non ammette critiche. Cecilia Capuana ce lo rappresenta così, perplesso e sognatore, duro e intransigente. La vita pubblica e quella privata del pittore, perennemente contrastante con un fratello che non ama, non capisce e che tuttavia avverte come un alter ego incombente su di lui, anche dopo la morte di Savinio. I due fratelli, nel racconto di Cecilia, sono quasi l’emblema di quella duplicità contradditoria che de Chirico vive fino all’ ultimo giorno in sé. Cecilia lo racconta inserendo nella sua storia testi, immagini delle vere opere di de Chirico, sue riformulazioni di quadri celebri del pictor optimus e veri e propri frammenti di una tipica storia a fumetti dove lo sguardo della nostra autrice è dolce, partecipe, coinvolto e benevolo, ma tutt’ altro che disinteressato alle riflessioni della più autorevole storiografia moderna su de Chirico di cui tiene gran conto ma con leggerezza e discrezione.

La storia raccontata da Cecilia non è un resoconto neutro. È, al contrario, un atto critico dove Cecilia si dimostra a contatto strettissimo con l’oggetto del suo racconto ma non lo giudica perentoriamente. Non lo esalta e non lo perdona, ma rimarca l’enigmaticità sempre presente nel comportamento e nell’opera di quel grande. Una enigmaticità che confina con la bugia, con la dissimulazione, con i comportamenti goffi e inconcludenti dell’eterno bambino, che quasi si accentuano mentre de Chirico sta toccando il vertice della sua creatività e si afferma come uno dei massimi pittori del ventesimo secolo.

In tal senso sono innumerevoli gli spunti psicanalitici profusi a piene mani ma con estrema delicatezza nel corso della narrazione, come quello della storia di Nivasio Dolcemare, scritta da Alberto Savinio, che vuole ridiventare piccolo piccolo, identificandosi col pulcino che rientra dentro la madre gallina. De Chirico è ben consapevole del trauma del fratello, che è anche il suo e nel contempo è inevitabilmente diverso.

Ne scaturisce la costante dialettica di adesione e ripulsa. Ma sono le forze contrarie con cui de Chirico dovrà affrontare tutta la vita. Adesione e ripulsa. E questo racconto di Cecilia Capuana diventa una narrazione che spazia dal più rigoroso dato documentario al più fantasioso apparato visivo, così tipico di quel suo segno che definisce e insieme attenua qualunque sospetto di un esplicito realismo documentario, tutto proiettando nello spazio di una adesione alla mente dechirichiana che non è però metafisica quanto piuttosto intimista, attenta a cogliere il minimo sussulto dell’anima.

Realizza così una favola che scorre dentro una sorta di tappeto metafisico su cui passano osservatori che portano in sé una consapevolezza autentica. E Cecilia ce lo fa capire, raccontandoci vita e opere di de Chirico per spiegare con grande semplicità e immediatezza, quanto sia difficile diventare sé stessi o almeno accorgersene.

Ma, sembra volerci dire, può essere questa una peculiarità tipica dell’essere artista, quella appunto di assomigliare a sé stesso, come pare dicesse una volta Gian Lorenzo Bernini, cercando di spiegare ad un suo aspirante biografo quale fosse stata la sua più alta aspirazione.

Qui, con il de Chirico di Cecilia, le cose stanno allo stesso modo.

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