Casa Alessandrini in Via Alessandria.
L’appartamento all’ultimo piano realizzato trent’anni fa sfugge ad una lettura banale quanto ad una sofisticata. Memore delle alte, interminabili quinte della strada, che costringono il passo e l’occhio su un implacabile asse costruito , un visitatore saltuario si smarrisce nella minuta serie di compressioni e dilatazioni realizzata dal progettista, finché non si affaccia di nuovo, da una delle strettissime logge dell’attico, sulla palazzata .
Il perché di tale smarrimento non risiede solo nella bizzarria ritmica degli spazi abitativi: ma dallo iato fra questi e la storia urbana raccontata dall’intorno.
Se quel visitatore non è romano, forse, e vagamente ricorda la breccia di Porta Pia, risarcita e imbalsamata nei marmi celebrativi di Roma Capitale, con tanto di colonna celebrativa davanti, non può fare a meno di notare la toponomastica per lo più regia , piemontese e, come è giusto che sia, Patriottica.
Con una forse più tarda estensione irredentista.
.Via Alessandria, per cominciare: un asse viario sul quale si ammassano case intensive per gli impiegati dei vicini, e quasi coevi, Ministeri dei Trasporti e dei Lavori Pubblici. Ad un estremo si biforca in Via Zara e in Via Alpi , attraversa Piazza Regina Margherita, poi Piazza Alessandria, e da lì, per Via Bergamo e Via Ancona, si collega a Piazza Fiume, Corso d’Italia,
Piazzale di Porta Pia. L’altezza intensiva dei palazzi, fra i quali quello di Massimo, ha, in quel frammento contenuto di Città, che comprende il primo tratto della storica Via Nomentana, realizzato nei decenni successivi, un pittoresco corrispettivo di ville e villini. Di case intensive di migliore qualità, che fanno, di questo miniquartiere (fra Corso d’Italia , Via Nizza, Via Morgagni e Viale della Regina ) , una sorta di articolato prototipo di spazio urbano.
Forse l’unico nel quale non registriamo le manie della grandeur di Piazza Vittorio e le ferite aperte di Via Cavour, Via Giovanni Lanza, Via degli Annibaldi , Piazza Venezia. E tutte le altre realizzate, come diceva Massimo Birindelli, per fare una capitale e distruggere una città.
Un quartierino, che nei Piani regolatori degli anni 1910 si prolunga e si salda
con la qualità di Corso Trieste, intersecato dalle Ville Albani, Torlonia e Paganini ; perfino con le straordinarie row houses anni 1920, delle Vie Carezza, Dei Colli, delle Alpi, delle Isole, miracolosamente salve attorno a Piazza Caprera. Un quartierino con un lungo elenco di bravi progettisti, forse incoraggiati da un ragionevole disegno urbano.
Forse anche un quartiere un po’ sperimentale, se è vero che il cortile del n.170 di Via Alessandria era organizzato in origine come case ringhiera di modello lombardo.
Fuori di questa in fondo rassicurante storia patria, nei 141 anni passati, è successo di tutto nel mondo. Fino al Pacific Trash Vortex, il cumulo di plastiche non degradabili grande come la Spagna o più, che saltuariamente scarica sulla costa delle Haway colline di rifiuti alte metri, spinto dalle correnti.
Il nostro Autore non sta, ovviamente sempre a casa.
E’ a casa o fuori casa indipendentemente da dove si trovi davvero.
Fra le compressioni ( realizzate con i bassi soppalchi in ferro e legno ) e
le dilatazioni ( la prima delle quali è l’uscita dalle scale al terrazzo d’ingresso),
Massimo Alessandrini ha disposto numerosi frammenti, senza celebrarli.
Paritetici e normali, dal pezzo di carretto siciliano al santo nudo di legno dipinto che ti addita inquietante, a opere di Giancarlino alla vecchia radio, all’armadio d’alluminio.
Nasce il sospetto che sotto tutte le scelte ci sia la reincarnazione di un nomade raccoglitore, determinato a vivere nel tempo prima delle semine e delle mandrie.
Un nomade che istintivamente, quindi, ha raccolto per vent’anni alcuni frammenti di quei cento milioni di metri cubi di plastica del Pacifico e ne ha fatto una piccola collezione estetica che tiene in casa.
Anticipa forse l’autore, il destino di quei cento milioni di famiglie che, se si volesse oggi far scomparire il vortice di plastica, dovrebbero mettersene in casa un metro cubo.
Se i pezzetti di plastica di Alessandrini sublimano un dolore,
l’estetica della profezia di Marcuse prenderà forse vita come sublimazione del riconoscimento attonito che per le future generazioni non ci sarà più nulla ( o troppo) da fare.
Carlo Severati 19.12.2011