L’ultima metamorfosi Storia di un’architetto

(EN ABSTRACT – The latest metamorphosis. Story of an Architect – Zaha Hadid)

di Carla Scura

Nel quadro dell’approfondimento su Zaha Hadid, ricordata nella galleria di Embrice 2030 con la mostra LiberaHadid in occasione del primo anniversario della sua scomparsa, presentiamo un ritratto dell’architetto anglo-irachena che aspira a considerare le numerose sfaccettature della sua personalità e le derive della sua arte, inclusa l’ultima in ordine di tempo, il gioiello progettato da Manuela Laurenti, Zaha Collier.

L’ultima metamorfosi

Storia di un’architetto

di Carla Scura

I started out trying to create buildings that would 

sparkle like isolated jewels. Zaha Hadid (1)

È quanto di più logico ci si possa aspettare, vedere un’opera architettonica di Zaha Hadid trasformata e miniaturizzata in gioiello, tanto da rientrare nell’ordine naturale delle cose (tutto si trasforma ecc…): Dame Hadid è sì diventata uno degli architetti più importanti e famosi del mondo, fino a ricadere nella poco amata categoria delle archistar, ma ha sempre portato con sé la pratica di altri “mestieri” e la produzione di oggetti altri. Si ricordino i disegni fatti sin da ragazza, attività questa del disegnare che si protrae a livello professionale e artistico dopo la conclusione degli studi e in avanti: soprattutto quel lungo periodo di tempo in cui Zaha Hadid era nota per le sue non-realizzazioni, di fatto per essere un’architetto (2) che non costruiva, un’architetto virtuale (“paper architect” è stata definita). Poi, dal momento in cui le sue opere hanno cominciato a essere concretizzate, costruite, visibili, si è avviata un’altra fase di architettura praticata a tutto campo, insieme con la produzione di sofisticati mobili e oggetti per la casa, che mostrano come dal design (in inglese, «concetto, schizzo, disegno della forma e struttura di un’opera d’arte o di un edificio») non si fosse che a un passo al Design avente l’attuale, comune accezione. Il passo all’ulteriore fase, la progettazione e produzione di gioielli (furniture for the body?) in collaborazione con prestigiose case anche italiane, è stato breve, anzi una delle ultime importanti realizzazioni in questo campo è avvenuta settimane prima della prematurissima, improvvisa scomparsa di questa “architetto totale”, o semplicemente architetto puro: dal greco archi-tèkton, con tekton, artefice, dal sanscrito taksh, costruire, fare, comporre, digrossare; insomma il “capo degli artefici”, o dei falegnami, o ancora dei fabbri, una figura che, «propriamente, non crea dal nulla; ess[a] forma soltanto, ossia dà una forma, una veste» (3) – quella, nuova, che Zaha Hadid ha cercato con caparbietà di dare alle relazioni e al mondo, modellando «un nuovo tipo di paesaggio che scorra all’unisono con le città contemporanee e le vite delle persone che le abitano». L’ultimo stadio della metamorfosi – certamente non quello definitivo – è la trasformazione di uno dei primi “gioielli” architettonici di Zaha Hadid, lo spazio Landscape Formation One, in un gioiello senza virgolette, quello costruito in argento di un’altra architetto, Manuela Laurenti (4).

Zaha Hadid è nata nel 1950 a Baghdad in un Iraq in corsa verso il progresso. Il padre è un economista e un politico allineato con il partito democratico iracheno, la madre un’artista, la famiglia è di quelle con molti mezzi. Zaha infatti riceve una formazione del tutto simile a quella che veniva impartita alle ragazze bene del Medio Oriente (si legga il godibilissimo, per quanto amaro,  Le cose che non ho detto dell’iraniana Azar Nafisi), frequentando scuole internazionali in patria e proseguendo gli studi all’estero, prima in Svizzera, poi all’American University di Beirut dove studia matematica e infine in Gran Bretagna per il secondo ciclo di studi universitari. Ma a quell’epoca (primi anni Settanta) l’intera famiglia Hadid ha ormai abbandonato l’Iraq: con l’avvento di Saddam si stabilisce in Libano, successivamente in Giordania, e lei va a Londra per studiare architettura, iscrivendosi alla Architectural Association School of Architecture, la struttura di formazione per architetti indipendente più antica del paese e fra le più prestigiose. Questo anche perché il padre vede in lei, che aveva sempre disegnato molto, un’inclinazione, sicuramente incrementata dal fatto che la casa paterna veniva molto frequentata da architetti e ingegneri; ma Zaha stessa si era identificata in questa figura fin dall’età di 11 anni.

Si narra che la giovane Hadid fosse abbastanza schiva di carattere, un personaggio molto diverso dall’immagine internazionale dell’architetto eccentrica e temibile dei decenni a venire. Forse in corrispondenza con lo scarso successo in termini concreti nei primi anni di carriera, e anche con un gusto chiaramente originale, in controtendenza, unico: come si può vedere dai suoi ormai famosi disegni Malevich’s Tektonik (1977) e dai progetti, realizzati o non, o come riporta Peter Cook a margine di una fotografia del 1978 che la ritrae insieme a Rem Koolhaas ed Elia Zenghelis, «This influential and controversial group develop mutant forms of urbanism … which accept the megalopolitan condition with enthusiasm. […] I would hate to live with their buildings. I would run screaming from among their barrack-like walls and their prison-like cages […]. I hope – despite my prejudices – that the viciousness is retained, the spirit is retained, the spirit is turned into awesome, upsetting flesh» (5). Un periodo di transizione fra il completamento degli studi e l’avvio della propria attività la vede collaborare proprio con lo studio OMA.

La successione di rifiuti, insuccessi, perfino sconfessioni di concorsi vinti (il caso del teatro dell’Opera di Cardiff) che caratterizzano la prima metà della vita professionale di Zaha Hadid è diventata leggendaria, forse ormai fa parte dell’aura del personaggio, e può essere considerata a buon diritto uno stadio della metamorfosi. Nel frattempo, lei disegna, dipinge (6), fa mostre, e insegna alla stessa AA in cui aveva studiato e all’estero. A quanto pare, le sue idee e la sua didattica sono molto apprezzate. Qualche progetto va in porto, ma a un certo punto, e precisamente nel 1998 con il nuovo Centre for Contemporary Art di Cincinnati da lei progettato e realizzato, si innesca un ciclo positivo che fino al 2016 – non senza polemiche e scontri, altrettanto leggendari, come ben si sa – non si ferma più. Il 2006 è un altro anno di svolta, soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento in patria (Dame Hadid è ormai cittadina britannica da diversi anni); e in quell’anno il Guggenheim le dedica una retrospettiva. Una carrellata sintetica e del tutto umorale delle sue opere realizzate non può non comprendere una delle prime, la Caserma dei vigili del fuoco Vitra a Weil am Rhein del 1994, la Roca London Gallery (showroom per il marchio spagnolo di ambienti bagno) del 2000, il ponte Sheikh Zayed ad Abu Dhabi del 2010, o il Galaxy Soho a Pechino (2012). Non si riscontrano nella sua architettura e pratica artistica elementi di derivazione strettamente orientale, probabilmente proprio perché la sua formazione avviene tutta all’interno dell’International Style, uno dei nomi del Modernismo in inglese. Zaha Hadid è figlia di una cultura moderna e internazionale a livello sia professionale sia privato. È visibile la transizione dalle guglie e cosiddetta “ruvidità” del suo stile iniziale di ispirazione suprematista che, giocando con la predilezione per la diagonale e i piani che si intersecano, si evolve in una compenetrazione di forme senza ideale soluzione di continuità, che fa pur sempre riferimento ai precursori della linea curva in architettura Eero Saarinen e Oscar Niemeyer. Un’altra caratteristica dell’architetto anglo-araba da non trascurare è stata la sperimentazione con i materiali, la predilezione per il cemento («for me concrete is the most plastic material»(7), la fibra di vetro e il perspex nel design, accompagnati però da oro o seta per i suoi gioielli o accessori prodotti con grandi case di moda.

Tutto questo ha visto la fondazione dello studio Zaha Hadid Architects, in partenariato con Patrick Schumacher (che ha teorizzato il parametricismo), con fino a 400 persone assunte. Zaha non ha un salone da megadirettore per sé, bensì una scrivania fra le altre, a contatto con tutti gli impiegati. Lo studio era collocato in una scuola ristrutturata a Clerkenwell (East London), una zona non centrale di Londra, del tutto “normale”, ma in questi ultimi anni l’architetto aveva acquisito il Design Museum di Londra a Southwark, a sua volta un ex deposito di banane ristrutturato insieme al resto del quartiere, che si affaccia sul Tamigi ed è molto centrale (uno dei primi esempi di recupero delle zone ex commerciali e di servizio tradizionalmente attive sulle banchine del fiume, realizzato già a cavallo degli anni Ottanta-Novanta) mentre il Design Museum cambiava sede migrando nel più centrale e ampio ex Commonwealth Institute (ora ristrutturato fra gli altri proprio dallo Studio OMA). A Southwark secondo i programmi si sarebbe dovuto collocare l’immenso archivio di Zaha Hadid, ricavandone anche uno spazio espositivo a carattere interdisciplinare. Parallelamente, venivano fondati Zaha Hadid Design, Zaha Hadid Design Gallery, The Zaha Hadid Foundation, perfino una Zaha Hadid (Italy) Ltd, per un totale di sette società a suo nome.

Dame Hadid abitava in un appartamento all’attico di un palazzo nuovo in Clerkenwell, descritto come tanto intimo quanto un salone di automobili, e praticamente quasi vuoto a parte qualche mobile (scomodo) firmato dalla padrona di casa. Eppure Zaha – permettendoci questa piccola confidenza di chiamarla con il nome di battesimo – era una donna, di origini irachene e per di più islamiche, emigrata a Londra, da dove svolgeva la sua professione di architetto, che non si è mai fatta particolarmente scudo né delle origini né del genere sessuale, anche se non ha potuto fare a meno di ammettere, quando sollecitata, che certo non era facile operare “in the boys’ club”, e che probabilmente bisogna imparare a farsi meno scrupoli. Tuttavia raramente ha avuto un atteggiamento recriminatorio, dichiarando candidamente che se non ha avuto una famiglia e dei figli (perché a lei, donna architetto, ovviamente è stato chiesto…) la ragione è semplicemente che è andata così, sottotesto: come semplicemente accade a milioni persone, e non a causa del lavoro, o dell’ambiente, o della carriera. Dame Hadid ha rivendicato che nel suo studio erano presenti molte donne in posizione dirigenziale, ma che oggettivamente non si poteva dire di aver ancora raggiunto il 50% nella presenza maschile-femminile. La famosa architetto, che prediligeva vestire in Yohji Yamamoto e Issey Miyake, non aveva particolari pretese o smanie da star e conduceva una vita relativamente semplice – salvo inviare un assistente dalla Biennale di Venezia a Londra a recuperare un paio di scarpe che teneva ad indossare in un’occasione specifica. Costantemente attaccata e messa sotto processo mediatico per alcune delle commissioni accettate (Azerbaijan, Qatar, e così via), si è serenamente difesa con mezzi legali e non, fino ad abbandonare di punto in bianco la polemica intervista alla BBC in cui veniva trascinata nella drammatica gestione della costruzione dello stadio qatariota (secondo i rapporti, oltre 1200 operai sono morti durante i lavori complessivi per la Qatar World Cup del 2013, ma queste cifre non riguardano il cantiere di al-Wakrah, NdA).

L’architetto anglo-irachena, colei che ha spezzato tutti i luoghi comuni (culturali, tecnici, estetici), è stata la prima donna a venire insignita del Premio Pritzker per l’Architettura (2004), di due Premi Stirling (2010 e 2011) e della Royal Gold Medal del Royal Institute of British Architects (2015). Nel suo discorso di accettazione, molto concreto, ha dichiarato che

…viviamo in un’epoca di rinnovata concentrazione urbana, con nuove sfide e occasioni che rendono il rinascimento urbano del XXI secolo molto diverso dal processo di espansione suburbana novecentesca. La differenza capitale sta nella nuova densità di interazioni e complessità della vita urbana. È necessario forzare edifici e programmi, e fare quasi in modo che si stringano in un amplesso, compenetrandosi. Per questo ci vogliono complessità e apertura spaziale. […] Ho fatto esperimenti con la curvatura libera con l’obbiettivo di articolare il dinamismo e la fluidità della vita contemporanea. […] Le mie opere hanno finito per essere molto diverse dalla maggior parte delle altre: sono diventate cospicue, facili da ricordare e da identificare come un mio marchio. Eppure l’architettura per me non è un mezzo di espressione personale: interpretarla in tal senso significa non comprenderla. Questo malinteso è spesso collegato con un atteggiamento sprezzante verso il mio lavoro, visto come autoindulgente o capriccioso. Invece io non ho mai avuto alcun dubbio che l’architettura debba contribuire al progresso della società e, in ultima istanza, al benessere collettivo e individuale. […] La progettazione urbana attuale deve far scorrere gli spazi liberamente. Per me l’analogia con il paesaggio è diventata molto importante come strategia per incrementare la permeabilità del suolo e la continuità della superficie, evitando l’immensità vuota dei grandi spazi modernisti. Mi ha dato l’ispirazione per impiegare il rilievo del suolo come un dispositivo di ordinamento morbido, più fluido e aperto della dissezione spaziale operata dai muri (8).

L’architetto Manuela Laurenti ha rivolto la sua attenzione “tecnica” (in senso etimologico) a una delle prime opere realizzate di Zaha Hadid, non a caso fra quelle concepite, a detta dell’autrice stessa, in modo che «brillassero come gioielli solitari». Proprio come rivendicato nel discorso, il centro Landscape Formation One «tenta di “derivare” spazialità fluide allo studio di formazioni naturale del paesaggio. […] Gli spazi si compenetrano; le differenze sono accennate, invece di essere definitive e rigide» (9). Progettato dal 1996 e realizzato in Germania (come diversi suoi altri progetti) nel 1999, si incastona nella morfologia del terreno esattamente come il sinuoso collier d’argento dell’architetto italiana farebbe sul décolleté di una di noi.

Sembrerebbe che Zaha Hadid se ne sia andata in modo altrettanto spettacolare – inaspettato, sorprendente – così come ha vissuto e praticato la professione.

Ci lascia un bel numero, nonostante i pessimi auspici dei primi passi nella professione, di opere ormai inconfondibili, dal nostro MAXXI all’Aquatics Centre di Londra. Una delle ultime realizzate in vita (perché molti progetti sono invece tuttora in corso di realizzazione) è una splendida farfalla bianca con le ali semichiuse, il discussissimo Centro culturale Heydar Aliyev di Baku, un nuovo oggetto alieno in mutazione verso forme e generi altri.

  1. «…now I want them to connect, to form a new kind of landscape, to flow together with contemporary cities and the lives of their peoples» “Ho cominciato cercando di creare edifici che brillassero come gioielli solitari, ora invece aspiro a dar forma a connessioni, a modellare un nuovo tipo di paesaggio che scorra all’unisono con le città contemporanee e le vite delle persone che le abitano”, dichiarazione rilasciata a Jonathan Glancey, «The Guardian», 9 ottobre 2006.

2. La nostra scelta redazionale è di impiegare la parola “architetto” come forma invariabile.

3. «…il senso primitivo della radice tvaksh fu quello di coprire, vestire». Angelo de Guvernatis, Letture sopra la mitologia vedica, Le Monnier, Firenze 1874, p. 176.

  1.  Con la realizzazione dell’orafa Reseda Orrù.

5. Rowan Moore cita Sir Peter Cook, il fondatore di Archigram e docente di Hadid alla AA, in “Zaha Hadid, 1950-2016: an appreciation”, «The Guardian», 3 aprile 2016.

6. Si ricordano almeno due mostre recenti alla Serpentine Sackler che hanno esposto i dipinti di Zaha Hadid, quella con i suoi disegni giovanili e la Zaha Hadid Virtual Reality Experience basata sui suoi dipinti astratti.

7. GA Document Extra, n. 003, 1995, Tokyo, p. 19.

  1. Zaha Hadid, “The Way Forward”, «The Architectural Review», 26 marzo 2016.

9. «Casabella», settembre 1999, p. 24.

Landscape Formation One, Painting © Zaha Hadid Architects

Zaha Collier

Copertina della prima edizione della rivista «Viz», 1978, con Zaha Hadid, Rem Koolhaas, Elia e Zoe Zenghelis e Madelon Vriesendorp, © The Guardian

MAXXI, particolare

Zaha Collier esposto nella galleria di Embrice 2030

Zaha Hadid’s Heydar Aliyev Center rises from the landscape in Baku, © Iwan Baan

 

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