Cinquecentenario del Ghetto di Venezia

di Carla Scura

(Immagine: Hugo Pratt, Corto Maltese – Favola di Venezia, Milano Libri 1984)

In occasione di questo importante anniversario e in particolare del Convegno internazionale “…li giudei debbano abitar unidi…” The Birth and Evolution of the Venetian Ghetto (1516­1797) che ha luogo in questi giorni, Embrice 2030 interviene con una riflessione sulla prima struttura di segregazione/aggregazione ufficiale istituita in Europa.

«Fra i vari tipi di insediamento, è la città quello in cui è più facile incontrare uno straniero o un estraneo. Tale persona sarà spesso venuta da molto lontano e si distinguerà per la lingua, l’apparenza fisica, l’abbigliamento, pratiche e credenze […]. Le città più grandi, più ricche, più potenti o attraenti tendono a contenere entro la loro popolazione il maggior numero, varietà e proporzione di stranieri. […] ciò che tali città possono offrire è evidente: opportunità di commercio da cui sembrava possibile trarre un profitto sostanziale oppure di impiego in occupazioni più sicure e rutinarie come l’operario, l’artigiano o l’impiegato. I centri dove risiede il potere offrono occasioni simili, anche se meno varie, nel settore dei servizi per le élite o per tutti coloro che vi gravitano in cerca di vantaggio politico, giustizia o protezione» [Keene]. Non è una fotografia dell’Europa di oggi, bensì del nostro continente nel Medioevo, quando a Venezia, Bruges o Anversa si parlavano decine di lingue. Londra, Parigi e Roma, ciascuna per motivi diversi, accoglievano numerosi e svariati gruppi di persone, in transito o in cerca di stabilità, ma la stessa cosa succedeva anche a Praga, Esztergom, Buda, fino a Leopoli. Le comunità di “stranieri” si creavano per una quantità di motivi, alcuni dei quali elencati sopra, a volte su invito stesso dei regnanti. In questa Europa di frequenti movimenti di persone i nuovi arrivati tendevano a raccogliersi in prossimità dei loro simili, e le autorità cittadine tendevano ad assegnar loro degli spazi: isolati, vie, quartieri, a seconda delle circostanze, come molti toponimi ancora raccontano. In questa Europa movimentata, rissosa, multilingue, incline allo scambio, spesso in preda alle guerre di religione il 29 marzo 1516 il Senato veneziano prende una decisione: «Li giudei debbano tutti abitar unidi in la Corte de Case, che sono in Ghetto appresso San Girolamo».

Nell’arco del 2016 quindi assisteremo a una serie di iniziative dedicate al ricordo e al recupero di quello che nel bene e nel male ha costituito un modello, una tipologia urbanistica che a Venezia ha conservato quasi intatte le sue caratteristiche come pochi altri luoghi al mondo. In particolare vogliamo segnalare il convegno internazionale che si tiene a Palazzo Ducale il 5-6 maggio 2016:  ’…li giudei debbano abitar unidi…’ The Birth and Evolution of the Venetian Ghetto (1516­-1797), organizzato dal the Medici Archive Project, Beit Venezia e Comitato “I 500 anni del Ghetto di Venezia”, e la mostra Venezia, gli Ebrei e l’Europa. 1516-2016 curata da Donatella Calabi, anche se gli eventi previsti nell’arco dell’anno sono numerosi (www.veniceghetto500.org).

La parola “ghetto” si è innervata in modo così negativo nella cultura europea, e poi nel mondo, nel corso degli ultimi quattro secoli che è arduo oggi considerarla per ciò che era nel Cinquecento: una designazione di derivazione utilitaristica per riferirsi a una fonderia, il “Geto del rame del nostro Comun” (“getto”, da “gettare” in veneziano, cui si sarebbe sovrapposta la “gh” dura così come pronunciata dai suoi primi abitanti, gli ebrei tedeschi). L’abitudine di raggruppare persone straniere dalla presenza più o meno duratura in città di maggiore o minore grandezza era applicata, come si accennava, a tutti i gruppi di persone non originarie del luogo, più frequentemente su base nazionale ma anche etnica e religiosa. Gli “stranieri” si muovevano a volte su invito dei regnanti, come ad esempio i mercanti italiani ricchi che nel medioevo e fino alle soglie dell’età moderna erano ben accolti e perfino ricercati nelle capitali d’Europa, ma la storia europea presenta diversi casi simili. Anche gli ebrei “tedeschi” (cioè in generale quelli di provenienza nord-europea) vennero ben accolti a Venezia, nella prima ondata di arrivi di questa etnia che si identificava principalmente attraverso la religione (i segni e motivi di appartenenza, che potevano essere svariati, erano allo stesso tempo segnali di differenza, di scarto dalla norma, quella in essere nella comunità di arrivo). Con l’intensificarsi di questi movimenti migratori, e per quanto riguarda gli ebrei in particolare con la cacciata dalla Spagna, gli amministratori della città di Venezia gestirono lo spazio comune assegnando a questo gruppo così fortemente crescente una zona, già nota come “g(h)eto”, nel sestiere di Cannaregio, provvista di separazioni ben evidenti (le mura) e di una sola uscita ed entrata che poi erano quelle già in uso nell’isola. A quanto pare la soluzione ebbe gradimento da entrambe le parti [Keene, Calabi, Michman], tanto che il nuovo modello urbanistico si diffuse in altre città d’Italia e non solo, di fatto formalizzando una realtà “prosaica” diffusa in tutta Europa. Il “gheto” (forse così, fra virgolette e con lo spelling originale riusciamo a vederlo con occhi diversi, se possibile – e non è possibile – spogliando il termine delle tragiche connotazioni che vi si sono accumulate in seguito) era sì un luogo separato e racchiuso ma anche una piccola città nella città, un villaggio, una comunità ben precisa e ben riconoscibile fra i membri stessi – nel bene e nel male. L’Urbs creava la Civitas, e con il tempo il “gheto” si trasformò «da rifugio temporaneo – come era stato vissuto nei primi decenni del Cinquecento – ad area urbana che provvedeva, insieme alle necessità della via quotidiana […] anche a quelle religiose», educative e cliniche [Calabi] con l’apertura delle schole e l’edificazione di ospedali. Va ricordato, infatti, che insieme alla creazione del quartiere venne dato il via alla costruzione delle sinagoghe, precedentemente proibite, distinte per etnia o provenienza e rito dei gruppi – la Scola Grande Tedesca, la Scola Canton, la Scola Levantina, la Scola Italiana e la Scola Spagnola o Ponentina – che formano «il più bel complesso sinagogale esistente al mondo» [Fugagnollo], con apporti del livello del Brustolon e del Longhena.

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Immagine: un ingresso al Ghetto di Venezia.

Il sestiere di Cannaregio, semiabbandonato all’epoca dell’assegnazione, non era sufficientemente esteso da accogliere migliaia di persone, ed è così che le abitazioni cercarono spazio in altezza, raggiungendo anche gli otto piani. La struttura di questi immobili a torre imponeva a volte una coabitazione inconcepibile per la sensibilità occidentale contemporanea, con case accessibili solo da altre case, ad esempio, replicando così la configurazione a incastro che in fondo caratterizza la planimetria della città stessa.

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Immagine: case alte al Ghetto di Venezia, TCI, Attraverso l’Italia – Illustrazione delle regioni italiane, vol. XIII, Venezia e la sua laguna, Bertieri 1947.

Un viaggiatore illuminato come Goethe, giunto a Venezia, ci offre indirettamente uno scorcio facilmente applicabile al “gheto”, dove possiamo immaginare tutto su scala maggiore: «Le abitazioni sorgevano come per incanto, e sempre più serratamente. Sabbie e paludi furono rimpiazzate da rocche. Le case chiedevano aria: come gli alberi che sono rinchiusi, si sforzavano di guadagnare in altezza ciò che a loro mancava in larghezza. Avari di un pollice di superficie, costretti fin da principio in piccolo ambito, non lasciarono fra le case più spazio di quanto era indispensabile fra una fila di fabbricati e l’altra per lasciare il passaggio ai cittadini. Del resto l’acqua teneva loro luogo di strade, di piazze e di passeggiata». Ma alla fine del Settecento il “gheto” ancora non costituiva una meta degna di nota, se dobbiamo credere al diario del suo Grand Tour, in cui diverse pagine sono riservate a Venezia ma non viene fatta menzione di questo luogo (del cimitero ebraico al Lido sì, che venne visitato in epoca romantica anche da Shelley e Byron). L’unico quartiere ebraico (così come lui lo definisce) che Goethe abbia visitato è quello che ricorda nella sua autobiografia, a distanza di molti anni dalla visita compiuta da ragazzo, ovvero quello di Francoforte – ed è una descrizione densa di sgradevolezza, impregnata certo delle idées reçues dell’epoca, in cui prevale la sensazione di sporco e di alieno («Die Enge, der Schmutz, das Gewimmel, der Akzent einer unerfreulichen Sprache […]»). Una visione tuttavia certamente impregnata dal suo astio nei confronti della maleodorante metropoli Francoforte.

Una straordinaria rappresentazione del “gheto” è stata data in forme letterarie, nel secolo scorso, da Giuseppe Bassani nel suo Il giardino dei Finzi Contini. Qui il quartiere tradizionale degli ebrei di Ferrara, la loro vita quotidiana sono messi in rapporto dinamico sia con “il giardino” (ovvero la loro controparte ricca e più laica, i Finzi Contini) sia con i plumbei eventi storici degli anni Trenta. Ma viene anche dipinta l’ampia rete, in termini geografici, di correligionari e parenti – di cui la parte più consistente viene proprio da Venezia, un altro mondo a parte fra i numerosi mondi a parte raccontati da Bassani – offrendo incidentalmente uno spiraglio sul carattere internazionale che ha avuto l’Europa nei secoli fin dal Medioevo, tratto che si traduceva nella necessità di gestire questo alto volume di scambi, di persone, di merci anche in termini urbanistici.

Attraverso una bellissima, apparentemente innocua e favolistica narrazione in flashback della storia della famiglia Finzi Contini, l’autore rende conto dell’involuzione a cui assiste la comunità ebraica in Europa che, conquistata l’emancipazione (dal ghetto, e adesso sì, usiamo lo spelling moderno con tutte le sue connotazioni) nell’arco dell’Ottocento e inseritasi a pari merito e titolo nelle società “ospitanti”, si ritrova incredula e impreparata in una nuova, fatale ghettizzazione.

Il “gheto” è rivissuto in forme visivo-letterarie e immaginifiche nel Novecento nei memorabili fumetti di Hugo Pratt Corte Sconta detta Arcana, nom de plume della Corte Botera (che nella realtà non è localizzata entro il “gheto”), e Favola di Venezia, nella cui introduzione, parzialmente ripubblicata in questi giorni su «Pagine ebraiche», l’autore ripercorreva la sua personale memory lane, che coincide con le calli e i campielli veneziani, popolati di parole esotiche e immagini misteriose, di derivazione sia ebraica sia araba. «Rincasando [dal ghetto] con mia nonna passavamo per il Rio della Sensa alla Madonna dell’Orto, dove sono incastrate nei muri dell’antico Fontego dei Mori o Saraceni le statue dei tre fratelli arabi: El Rioba, Sandi e Afani. Quando domandavo chi mai fossero quei signori vestiti alla “grega”, mia nonna diceva che erano mori, mammalucchi turchi». Pratt poi racconta del ritorno a Venezia «che la guerra non era ancora finita: le case del ghetto […] erano chiuse e gli ebrei fuggiti si nascondevano nelle abitazioni dei veneziani. Di notte, piano piano, si raccontavano di nuovo antiche storie arabo-spagnole», aggiungendo che, studiando molti anni dopo l’iscrizione collocata nei pressi della Schola Espanola con i nomi degli ebrei deportati e mai più tornati, «non sono molti questi nomi, perché Venezia nascose i suoi ebrei. Li nascose nelle sue “Corti Sconte” dette “Arcane”». E rievoca, con tono di rimpianto per le sovrapposizioni del tempo che a volte cancellano la storia, che questa «forse si può ancora trovare appena oltre il Ponte Ebreo, quando si entra nelle osterie, dove si gioca ancora con le vecchie carte arabe, la Saracena, la Maomettana, oppure la Bella Giudea. […] Gli ebrei marrani avevano le loro carte e le vecchie chiavi delle case spagnole sugli stipiti delle porte veneziane. Quasi una promessa di ritorno alla diaspora voluta dall’inquisizione spagnola».

Non espandiamo qui l’ideale capitolo “poesia e letteratura del ghetto”, di cui pure esistono esemplari nelle letterature nazionali europee, e ci auguriamo che il discorso condotto attraverso la celebrazione pubblica della fondazione dell’UR-“gheto” nel 1516 guidi spettatori e visitatori alla riscoperta sia dei luoghi sia dei valori che governavano l’articolazione delle società e dei loro spazi 500 anni fa in Europa.

Fonti bibliografiche scelte

K. L. Berghahn – J. Hermand, Goethe in German-Jewish Culture, Camden House 2001

M. Barbot, “Gli scambi immobiliari in ambito urbano”, in Lo sguardo della storia economica sull’edilizia urbana, «Città & Storia» n. 1, 2009

B. Bosa, “La juste distance? Comment les sciences sociales et historiques pensent la différence”, in «Social Science Information» 52(1), 2013

D. Calabi, “The ghetto and the city”, in Catalogo Esposizione Amsterdam and Venice, Jewish Museum di Amsterdam 1991

D. Calabi, Il mercato e la città. Piazze, strade, architetture d’Europa in età moderna, Marsilio 1993

D. Calabi – P. Lanaro (a/c di), La città italiana e i luoghi degli stranieri (XIV-XVIII secolo), Laterza 1998

J. W. Goethe, Viaggio in Italia, 1817

J. W. Goethe, Aus meinem Leben. Dichtung und Wahrheit, 1811–1833

D. Keene, “Segregation, Zoning and Assimilation in Medieval Towns”, in Segregation, Integration, Assimilation: Religious and Ethnic Groups in the Medieval Towns of Central and Eastern Europe, a/c di D. Keen – B. Nagy – K. Szende, Ashgate Publishing, 2009

U. Fugagnollo, Venezia così, Mursia 1969-1979

D. Michman, The Emergence of Jewish Ghettos during the Holocaust, Cambridge University Press 2011

H. Pratt, Corto Maltese. Favola di Venezia, Milano Libri 1984

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