Roberto Veneziani. Ricordo di Giuseppe Miano e di Giorgio Muratore

Recentemente ho perso due carissimi amici, due persone che per quasi 50 anni sono state degli affettuosi e sinceri compagni di strada della mia vita: Giuseppe Miano (1935-2015) e Giorgio Muratore (1946-2017). Avendo preso l’impegno con “Embrice” di scriverne un ricordo per questo blog, ho voluto provare a parlare di loro due insieme, ricordando le tappe della nostra amicizia e, insieme della nostra vita.

Facevano entrambi gli storici dell’architettura, insegnavano alla Sapienza e, pur essendo due persone molto diverse, per carattere e per radici culturali, si stimavano molto e avevano in comune un certo modo “curioso” di occuparsi dell’architettura (curioso nel senso che svolgevano con grande curiosità il loro lavoro), mai avulsa dai tempi e dalla società che l’aveva prodotta. Questa loro curiosità appassionata nella ricerca della genesi delle opere che studiavano,  mi ha sempre affascinato in entrambi. Con la loquacità pittoresca che li contraddistingueva e la loro capacità di trasmettere forti emozioni sugli argomenti studiati, sono stati spesso capaci di coinvolgermi nelle loro indagini e di farmi partecipe delle loro scoperte e delle loro teorie su momenti salienti dell’ architettura italiana tra ‘800 e ‘900.  Questo infatti è un altro punto che li accomuna: i loro interessi, pur avendo spaziato per tutto l’arco della storia che comunemente viene chiamata moderna, si sono alfine concentrati per entrambi sulle vicende architettoniche italiane potremmo dire “post rivoluzione industriale”, fino al periodo fascista e al secondo dopoguerra.

Il loro modo “sociale” di accostarsi allo studio della storia dell’architettura ha una filiazione più o meno diretta dagli insegnamenti di Manfredo Tafuri (di cui Peppe, ricordiamo, è stato assistente a Venezia i primi anni della sua carriera); ma lascerò agli addetti ai lavori il compito di inquadrarli nella storiografia di questo periodo. Vorrei invece provare a descrivervi come posso la capacità affabulatoria  di coinvolgere gli altri nei loro studi, di cui entrambi erano grandemente dotati.

Le frequenti chiacchierate sulle ricerche che stavano svolgendo, sono state per me una continua occasione di crescita e di allargamento dei miei orizzonti intellettuali. La loro grande cultura permetteva di spaziare tra gli argomenti più vari; argomenti che andavano sempre di pari passo con le architetture oggetto dei loro studi, che potevano riguardare l’ambiente culturale e artistico in cui erano nate, le vicende familiari degli architetti, delle loro famiglie, dei costruttori e dei committenti, che investivano tutta la società che le circondava e che spesso potevano anche sconfinare nel pettegolezzo goliardico, di cui entrambi erano maestri e di cui entrambi rivendicavano la forte valenza storica e l’importanza per i loro studi. In vari momenti mi è capitato di frequentare i loro esami all’università, di affiancarli nelle commissioni e in queste occasioni ho potuto toccare con mano la grande disponibilità e l’ottimo rapporto di complicità che riuscivano a intrattenere con gli studenti (quelli più ricettivi, ovviamente). Ho conosciuto, e di alcuni sono anche diventato amico, molti giovani laureati dei miei due amici, che continuano ad avere per loro una autentica venerazione; perché è con gli studenti che la grande capacità di coinvolgimento di cui parlavo poc’anzi dava i migliori frutti. La loro abilità nello spronare i ragazzi verso la ricerca, nell’insegnare la metodologia da usare nelle indagini, nella consultazione di testi ed archivi, nell’indicare la strada da percorrere, ha formato generazioni di giovani, alcuni dei quali oggi tengono vivo il ricordo del loro insegnamento nelle università. Negli ultimi anni assegnavano entrambi tesi su personaggi anche secondari dell’architettura degli ultimi due secoli nel tentativo di ricostruire, per momenti, la storia e la prassi dell’edilizia, soprattutto della città di Roma. Essendo tra i pochi, (per parecchi anni gli unici) nella nostra facoltà ad occuparsi di architettura contemporanea, spesso erano l’uno correlatore delle tesi dell’altro, cosa che ancora di più li rendeva un costante punto di riferimento per gli studenti che volevano occuparsi di questi argomenti. La predilezione per gli studi sull’architettura recente, e un certo tipo di approccio non (o almeno non esclusivamente) filologico negli studi, li ha resi entrambi poco graditi all’establishment storico della facoltà, concentrato sull’architettura antica, rinascimentale e barocca, altra cosa che negli ultimi anni li aveva fatti sentire dei personaggi particolari nell’ambiente accademico, peraltro molto apprezzati in altri atenei italiani e stranieri.

La mia amicizia con Peppe iniziò nel 1971, in occasione di un viaggio negli Stati Uniti organizzato dal prof. Tafuri a Venezia, nel quale io e il mio amico Marco Vidotto, che già  conosceva Miano, eravamo riusciti ad infiltrarci. Di quel viaggio, tappa fondamentale della mia crescita culturale, ho tanti cari ricordi, a cominciare da quello di un Giuseppe Miano, in piedi nel corridoio dell’aereo che ci portava da Roma a Boston, che intonava il tema della sinfonia “dal nuovo mondo” di Dvorak incitando al coro gli studenti (e i tanti professori), galvanizzandoli come solo lui sapeva fare  per l’arrivo sul suolo americano.

In quei venti giorni di viaggio la nostra amicizia si è rapidamente consolidata, lasciando dei segni che sono rimasti molto profondi dentro di me, non ultimo il ricordo di una sera in albergo in cui Peppe, apprendendo delle mie origini ebraiche, si commosse fino alle lacrime parlando della Shoà.

In seguito io e Marco fummo ospitati per un periodo nel suo studio di via Montevideo, dove  frequentammo tanti cari colleghi più grandi di noi, alcuni dei quali dovevano diventare dal 1973, insieme a Peppe, compagni di strada nel nuovo studio di via Germanico.

Da allora fino alla sua morte Peppe è stato per me un maestro, un mentore (aveva 15 anni più di me) e, direi anche, un “accompagnatore occulto” in tutti i viaggi che ho intrapreso  in Italia e all’estero.

Con il suo amore per le città e i territori di tutto il mondo, che conosceva in modo impressionante, ha sempre aiutato me, ma anche i miei figli, ad organizzare dei tour approfonditi, indicando sempre luoghi curiosi e sconosciuti da visitare, suggerendo riferimenti letterari e musicali essenziali  secondo lui, per comprendere la vera natura delle città visitate, con lo stesso scrupolo che usava nella preparazione delle lezioni nel corso che teneva di “storia della città e del territorio” e dei viaggi intorno al mondo organizzati per molti anni per un’associazione culturale. Perché questo, io credo sia il pregio maggiore del mio amico scomparso: la capacità di fare una sintesi interdisciplinare delle cose che studiava, e la capacità di trasmetterla agli altri, studenti, amici e compagni di viaggio, con il sostegno della sua profonda cultura e della sua straordinaria sensibilità.

Più o meno nello stesso periodo, dopo il 1970, è cominciata la mia amicizia con Giorgio Muratore, al tempo del suo matrimonio con Clementina, mia cara collega di studi e compagna di tutta la sua vita, di cui sono stato testimone alle nozze. La complicità nelle cose di architettura, tra noi, è cominciata per la comune passione a rovistare tra le carte di alcuni robivecchi, in scantinati spesso pieni di pulci, alla ricerca  di testi e riviste di architettura dei decenni passati. Intere biblioteche di formazione di ingegneri ed architetti del passato, finivano buttate alla rinfusa in questi locali nei quali passavamo ore per trovare qualche numero di “Casabella”  o di “Architettura e Arti Decorative” degli anni  ’20 – ’30, o qualche album della casa editrice “Crudo” che erano i gioielli più ambiti delle nostre biblioteche che si andavano formando in quel periodo. Il gioco continuava nelle nostre case quando con calma sfogliavamo insieme le carte polverose che avevamo trovato, scoprendo di giorno in giorno paternità dimenticate di palazzi romani, scambiandoci doppioni di riviste e approfondendo insieme quello che per me è rimasto un hobby, ma che per lui è diventato il suo lavoro di studioso e di ricercatore.

Erano gli anni in cui gli addetti ai lavori stavano riscoprendo l’architettura del ventennio, dopo il tentativo di “damnatio memoriae” operato nel dopoguerra. Erano ancora in vita tanti protagonisti di quel periodo, ma le resistenze ad accettare a pieno titolo quel tipo di edilizia erano ancora molto forti nel mondo accademico; Giorgio fu sicuramente uno dei primi a riconoscerne fino in fondo la dignità, e a combattere le prime battaglie a tutela di un patrimonio che in molti casi era destinato alla demolizione o allo snaturamento attraverso discutibilissime operazioni di restauro.

In occasioni domestiche, circondati dai nostri figli che crescevano insieme, era frequente che si parlasse delle sempre più frequenti battaglie che Giorgio intraprendeva per la salvaguardia di monumenti di quel periodo, a cui io sempre mi affiancavo entusiasta. Per citarne una su tante, la mobilitazione  per la salvezza della casa del fascio di Campobasso, dell’architetto Domenico Filippone, salvata dalla demolizione voluta da un potentato locale, che voleva erigere al suo posto un palazzo della regione. In quel caso finì sulle pagine dei giornali la figura di un eroico funzionario della soprintendenza che fece scudo con il suo corpo alle ruspe che avevano iniziato a demolire!

L’ultima delle sue battaglie, vinta (?) in extremis, è stata l’apposizione del vincolo alle tribune di Lafuente a Tor di Valle, di cui abbiamo parlato tutta una sera a cena due o tre giorni prima della sua scomparsa.

Con lui, insieme ad altri amici, intorno al 1980 avevamo fondato un’associazione “per l’architettura contemporanea” che ebbe breve vita, ma con la quale organizzammo un paio di mostre su due argomenti che stavano molto a cuore ad entrambi: gli stuccatori romani degli anni ’20 – ’30 e le sale cinematografiche di Roma. Entrambe le mostre, realizzate con un piccolo finanziamento dell’assessorato a la cultura del comune di Roma ai tempi di Renato Nicolini, hanno avuto un certo richiamo, soprattutto l’ultima, e sono oggi un triste ricordo  di un’occasione  perduta per salvare dall’oblio una tipologia edilizia completamente cancellata dall’avvento delle multisale.

La famiglia Muratore, Clementina e le sue figlie, ha pensato bene di mettere a disposizione di studiosi, studenti e amici l’enorme mole di libri, tesi e materiale d’archivio raccolti da  Giorgio nell’arco della sua vita. E stato da poco inaugurato, nel suo studio di Via Tevere 20, il “Centro studi Giorgio Muratore – Osservatorio sull’architettura” sulla scia dell’ormai famoso blog “Archiwath” alla cui redazione Giorgio ha dedicato con grande impegno questi ultimi anni.

L’archivio e i libri di architettura di Giuseppe Miano, incentrati soprattutto sui suoi viaggi intorno al mondo e su le ricerche da lui operate in città e luoghi anche poco conosciuti, sono stati da me stesso ordinati e ceduti dagli eredi, i nipoti Serraino, alla biblioteca del PDTA, Dipartimento di Pianificazione Design Tecnologia dell’Architettura, in Via Flaminia 72, dove sono consultabili dall’inizio dell’anno.

Veneziani e  Miano a Studio negli anni 1980

Giuseppe Miano nel mare di Karpatos

Giorgio Muratore e Clementina Barucci a una festa in campagna a casa Veneziani .

 

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