
di Vincenzo Nizza e Carla Scura
Embrice si unisce alla denuncia e sdegno internazionali per il progetto di demolizione dello Y-Blokka di Oslo (arch. Erling Viksjø, 1969), decorato con murales esterni e interni su progetto di Pablo Picasso (realizzati da Carl Nesjar) e destinato a ospitare uffici statali. Secondo fonti governative, le opere di Picasso dovrebbero venire ricollocate (ma ancora non è stato precisato con quali modalità e in quale destinazione): un po’ come «the medium is the message», «The art is the wall», ha puntualizzato la figlia di Nesjar, Gro Nesjar Greve. Inoltre è noto lo stato di abbandono dell’edificio – ulteriormente danneggiato dall’attentato terroristico nel 2011 – i cui costi di manutenzione sono alti (come avviene per molti altri edifici di stile brutalista) e quindi giudicati insostenibili dal governo norvegese. Per questo ci uniamo alle voci dissenzienti relativamente alla sorte delle grandi opere moderniste di architettura, come d’altronde messo in luce da Europa Nostra che ha incluso l’edificio – così chiamato per la forma della pianta – nella Shortlist dei 7 siti del patrimonio europeo in maggior pericolo di sopravvivenza.
Come ben si sa, il murale di Oslo non è il solo a rischio. Un altro murale (a Hull, UK), pure molto bello e sempre a tema ittico, è stato sollecitato all’attenzione del pubblico, di nicchia e sui social media. È proprio di questi giorni la notizia dell’abbattimento del “Teatro italiano” di Tirana, edificio razionalista di Giulio Bertè, anch’esso incluso nell’elenco di Europa nostra. E sono in crescita i siti web e l’attenzione nei confronti degli edifici brutalisti chiusi e in stato di abbandono in tutta l’Europa dell’est, quando non li hanno già rasi al suolo.
Questo per dire che l’attenzione nei confronti delle opere brutaliste e moderniste, almeno in certi circoli, è alto e vivo; e va di pari passo con il rifiuto della “riscrittura urbana” che purtroppo conosciamo (Londra che ha aperto la strada, dai Docklands negli anni ’90 ai quartieri di Spitalfields e Whitechapel in corso quasi di rifondazione; il Porto Fluviale a Roma; la tribuna di Julio Lafuente nello stadio ippico di Tor di Valle, cui Embrice ha dedicato una mostra, struttura per il momento salva).
In Europa dell’est il discorso è molto delicato, perché quello stile architettonico è inviso anche in quanto espressione del regime sovietico (stesso scambio, mistake letteralmente, che viene fatto con l’equazione razionalismo-fascismo) e quindi al mancato apprezzamento estetico si aggiunge il sentimento della vergogna.

Nel mondo occidentale sembra prevalere il principio “liquido” messo in luce da Zygmunt Bauman. Per tornare a Oslo, infatti, si auspicava che un magnate o un gruppo di finanziatori fosse disposto a smontarlo e ricollocarlo altrove, come d’altronde è spesso stato fatto in tempi antichi e moderni, ma fondamentalmente non c’è volontà. C’è poco da aspettarsi in una società che ha fede cieca e speranze utopiche nei concetti di “erase and rewind”.
Bauman, padre del concetto di società liquida, ci ha lasciati da poco, insieme a molte considerazioni su cui riflettere. Una delle conseguenze del fluire dinamico dei cambiamenti che ci interessano e che interessano il pianeta è la necessità sempre più ansimante di trovare una propria collocazione umana all’interno di una società in continuo cambiamento. Una società-causa – tra le tante – di alienazione dall’esperienza, dalle tradizioni, dalla cultura della conservazione. In questo fluire, le memorie che dovrebbero succedersi si cancellano e si sostituiscono. Sono le basi di processi culturali che compiono metamorfosi anche improvvise e inattese ad essere messe da parte. Il principio ispiratore della regola viene messo in crisi nei suoi fondamentali. La società si muove senza sosta, cosciente spesso, ma nell’assoluta impossibilità di fermare la fluidità del cambiamento che la muove e la travolge. Ma questa cancellazione rende frammentario e indecifrabile il nostro stesso percorso culturale. Ci rende capaci di rispondere a impulsi contingenti, al prezzo di profondi tagli nei processi stessi di sviluppo, laddove mina i simboli di esperienze, storie, accadimenti. La riflessione sulle parole di una vecchia canzone “erase and rewind” vuole prenderle a simbolo della richiesta di utopie a cui la contemporaneità ha offerto in qualche modo illusioni di risposta. Da mondo immutabile dominato dalla natura a mondo interattivo, per finire nel suo totale stravolgimento. E con la stessa arte e sapere improvvisati di un bambino, certo che la sua opera sarà un castello incrollabile.
Quali legami trovare con questi concetti – se condivisi – e l’architettura?
Quale liquidità si trova nei cambiamenti del design e della progettazione?
Alle domande di chi o di cosa dovrebbe rispondere oggi l’architettura, per stabilire un equilibrio tra individuo-essere vivente, cultura ed esigenze nuove?
(foto di copertina: Hürriyet Daily News, 15 gennaio 2013)
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